Igiaba Scego, La mia casa è dove sono, a cura dell’ITCG Marconi, Anagni

IL LIBRO.

“Sheeko sheeko sheeko xariir”. Queste parole in una lingua straniera, belle e musicali nella pronuncia, costituiscono l’incipit del libro, che si apre, come tutte le  fiabe, con una frase simbolica dove scompaiono le dimensioni spazio-temporali: “Storia storia oh storia di seta”. Ma è una fiaba dura quella che Igiaba Scego, somala di origine, italiana di adozione ci racconta. Tutto ha inizio a Manchester, dove in una casa di Barack Street assistiamo alla riunione di una  famiglia un po’ particolare: “ognuno di noi – racconta l’autrice – aveva una diversa cittadinanza occidentale”. Potremmo aggiungere: e un solo cuore somalo, racchiuso nella magica scatola dei ricordi di Mogadiscio, la città ormai distrutta da un’eterna guerra civile. In questa casa inglese, sull’onda emozionale di un passato da rivivere, nasce l’idea di creare una mappa dei ricordi: prima l’Africa, poi l’Italia. Due aspetti della stessa anima che fanno dire a Igiaba: “Sono cosa? Sono chi? / Sono nera e italiana. / Ma sono anche somala e nera”. Per raccontare questa storia Igiaba si serve di suoni, colori, immagini, riflessioni, fino a creare un affresco variopinto che suddivide in capitoli ai quali assegna il nome di  luoghi particolari di Roma, cui la legano vicende della propria vita. Ed ecco allora il racconto iniziare dal Teatro Sistina e dalla figura di Alì Omar Scego, il padre di Igiaba, venuto in Italia negli anni Cinquanta per studiare nella scuola politica creata per i futuri amministratori della Somalia. Durante una serata passata con gli amici a teatro per ascoltare il grande Nat King Cole, Alì ha la sensazione che Roma sia una città “magica”, dove trovare rifugio “semmai si fosse trovato nei guai”, come puntualmente avverrà dopo il colpo di stato di Siad Barre nel 1969. Ha così inizio il sodalizio tra la famiglia Scego e la città eterna, che vediamo dipanarsi attraverso amori e contrasti. “Piazza Santa Maria della Minerva è tra le mie preferite a Roma”, afferma l’autrice, che ancora bambina resta affascinata dall’elefantino di Bernini, esule come lei e la sua mamma, vera protagonista del capitolo: bambina nomade che vive nella boscaglia, adolescente cui viene praticata l’infibulazione, giovane donna ormai trasferita a Mogadiscio dove riesce anche a studiare frequentando una classe elementare, e infine giovane sposa. La Stele di Axum, piazza di Porta Capena: “oggi in quel posto non c’è più niente”, dice  Igiaba; la stele, portata nel 1937 a Roma, simbolo della guerra coloniale, è tornata al suo luogo di origine. Ancora una volta, sull’onda del ricordo, ci lasciamo trasportare in Africa per rivivere un altro brandello di storia, quella di Oman Scego, il nonno, una figura quasi sospesa tra il mitico mondo delle Mille e una notte e la civiltà occidentale, in cui si inserisce grazie alla sua abilità di traduttore, tanto che la definizione più appropriata per lui resta quella del figlio: “era come un ponte sospeso tra due mondi”. La Stazione Termini: non poteva mancare nella storia un capitolo dedicato al luogo di tutte le diaspore, “microcosmo di vita e di morte”, dove si incontrano tante persone e soprattutto si “acquista” la merce più preziosa: le chiacchiere. Trastevere: il quartiere si collega con un triste periodo della famiglia Scego. Il padre lontano, in Somalia, il resto della famiglia a Roma, le difficoltà economiche che si fanno sentire, e un aiuto che viene proprio dal più famoso quartiere romano, dove opera attivamente la Caritas diocesana. Lo Stadio Olimpico è l’ultima tappa del nostro viaggio insieme a Igiaba, che lo identifica con due immagini: lo sfarzo del regime fascista e la vittoria alle Olimpiadi del 1960 del maratoneta Abebe Bikila. Poi c’è la passione  adolescenziale per la Roma calcio. È il biennio 1990-1992: anni di guerra civile in Somalia, anni che disperdono gli affetti, la madre lontana a Mogadiscio, il telefono che non squilla, la scuola, i primi amori, il dramma della bulimia ed infine la forza interiore di superare ogni ostacolo. Il nostro viaggio è terminato, la mappa è stata completata, la storia è finita. Il libro, invece, resta aperto sulle tante domande che l’autrice pone a se stessa e ai lettori.

(Igiaba Scego, La mia casa è dove sono, Rizzoli, Milano 2010, pp. 168)

LA CITAZIONE.

“Che significa essere italiano per me… Io ho provato a scriverla una risposta… ma non mi veniva in mente niente. Non avevo una risposta. Ne avevo cento. Sono italiana, ma anche no. Sono somala, ma anche no. Un crocevia. Uno svincolo. Un casino. Un mal di testa. Ero un animale in trappola. Un essere condannato all’angoscia perenne. Essere italiano per me…”.

IL PERSONAGGIO.

Madre di Igiaba, rappresenta il filo conduttore del libro, la donna capace di “rimappare” la propria esistenza, da bambina nomade a giovane telefonista nella città di Mogadiscio, da analfabeta ad apprendista della parola non solo parlata ma scritta, da donna agiata nella sua terra ad esule in Italia. È lei la donna capace di dare ai figli il coraggio della verità e la forza della dignità. È la tessitrice delle mille storie, la Sharhazad della Terra di Punt (la Somalia), colei, dice Igiaba, che “con i suoi racconti mi ha liberato dalla paura… mi ha reso persona”.

a cura dell’ITCG Marconi, Anagni

immagine per Igiaba Scego La mia casa è dove sono

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