L’INTERVISTA.
La scrittrice Gaia Manzini, intervenuta all’anteprima di Facciamo un libro (Roma, Fiera Più libri più liberi, 7 dicembre 2011) risponde alle domande degli studenti del Liceo scientifico Pacinotti di Cagliari.
Qual è stato l’input che ha fatto scaturire in lei il desiderio di diventare scrittrice e trasmettere il suo pensiero e le sue idee?
Credo che nella vita di uno scrittore ci siano due momenti importanti. Il primo è la scoperta: quella di avere un’affinità con la parola scritta. È il momento in cui avverti la scrittura come qualcosa che ti appartiene profondamente, anche se è un sentire confuso, pieno di dubbi. Il secondo è quello della nascita: è il momento in cui farsi leggere dagli altri diventa una necessità. Lo scrittore nasce veramente insieme al suo primo lettore. Questa esigenza in me è arrivata tardi. È scaturita insieme a una certa maturità personale, intorno ai trent’anni. Farsi leggere implica un giudizio e necessita spalle larghe per saper accettare qualsiasi verdetto.
Nell’incontro di inaugurazione dell’edizione 2012 di Facciamo un libro, lei ha esposto i suoi punti di vista al fine di indirizzare giovani scrittori verso un incipit dal tono singolare. Volevamo sapere se nella sua esperienza ha mai letto un incipit che le è rimasto impresso nella mente.
Ce ne sono tanti. L’informazione di Martin Amis inizia così: “Le città di notte contengono uomini che piangono nel sonno, poi dicono Niente. Non è niente.” In una frase Amis dà una visione amplissima. Come da un’inquadratura aerea su una città vediamo subito accendersi delle luci: finestre sparse che s’illuminano progressivamente sulle facciate dei palazzi. Poi dalla visione aperta si passa in un attimo al calore di un letto, alle coperte stropicciate, a una faccia disperata. Nel giro di una frase abbiamo accesso a un mondo che non ci aspettavamo, un mondo notturno, che vive di fianco a noi senza che mai ne avessimo avuto il sospetto. Eppure è un’immagine patetica che sta tutta in quel “Niente. Non è niente.” Quello che ci figuriamo non è un uomo preso da un dolore incontenibile che cerca in ogni modo di minimizzare. No. La sua è una battuta già sentita, teatrale. Ripete “niente” due volte per autocompatirsi. C’è finzione e vanità, e tu hai il sospetto che soffra davvero per qualcosa senza importanza. I drammi veri di solito sono muti. In una frase hai lo spaccato di un mondo grottesco. Poi vai avanti nella lettura e scopri che avevi ragione, che il romanzo era già tutto in quel bellissimo incipit.
Nell’incontro lei ha affermato che “il racconto è come un quadro, immerso in un unico modo di sentire, un unico mondo”. Secondo lei che rapporto c’è tra l’arte e la scrittura?
L’arte figurativa ha un vantaggio sulla scrittura: l’immediatezza della fruizione. Eppure con la scrittura, che ha bisogno di più tempo, si possono potenziare alcuni insegnamenti fondamentali delle arti. Ci sono pittori come Van Gogh che riconoscete al primo sguardo, sentite la tensione della pennellata, la sua forza e drammaticità. Questo nella scrittura si traduce nello stile dello scrittore, nella voce che ha sulla pagina. È la voce – più ancora del contenuto – ad arrivare a chi legge. Un bravo scrittore fa vedere al lettore il mondo dal suo punto di vista. Non è forse quello che fa anche un pittore?
“… per scrivere al meglio delle proprie capacità, è opportuno costruire la propria cassetta degli attrezzi e poi sviluppare i muscoli necessari a portarla con sé”. Quali sono, secondo lei, gli strumenti fondamentali da mettere “nella cassetta” di un ragazzo che si accinge a scrivere una storia?
Il più grande strumento di uno scrittore, soprattutto se giovane, è la lettura. Non ci sono gerarchie: letture buone, letture cattive, letture tiepide… a chi vuole scrivere tutto può servire. Meglio essere lettori onnivori e sviluppare pian piano una propria consapevolezza di giudizio e un proprio gusto. Al di là delle scelte però, la lettura di chi vuole scrivere ha delle caratteristiche particolari. È un leggere desto, attento ai meccanismi, alle strutture che soggiacciono alla narrazione. È lettura predatoria: come posso fare mio quello che sto leggendo? Come interagisce col mio sentire? Che spunti mi dà?
Nel suo libro Nudo di famiglia lei dà molta importanza al corpo come se fosse esso a trasmettere emozioni e sensazioni. Secondo lei, quando una persona prova un disagio verso il proprio corpo, che visione potrebbe avere del mondo che la circonda?
Il corpo è un filtro fondamentale nella vita di tutti i giorni. È un fatto: quando proviamo un’emozione, così come quando pensiamo, c’è un’incidenza diretta sul nostro corpo… formicolii, endorfine, mal di testa, mal di pancia, tensione muscolare… Viceversa quando il corpo sta male la mente può scontarne le conseguenze. Mens sana in corpore sano, diceva Giovenale. Non esiste dualismo, né spaccatura come un certo modo di pensare vorrebbe insegnarci. I disagi che proviamo non solo verso il nostro corpo, ma anche verso alcune attitudini mentali, influenzano sempre il nostro modo di vedere il mondo. Credo che il vivere stesso sia un venire a patto con i nostri limiti. Quello che possiamo fare è imparare a guardare da lontano il nostro disagio, analizzarlo, prenderne coscienza. È l’unico modo che abbiamo di ridimensionarlo.
Data la sua esperienza nell’ambito pubblicitario, un mondo nel quale sembra aver sempre più importanza l’immagine, il momento di grande crisi economica che stiamo vivendo ha in qualche modo cambiato il rapporto dell’uomo con il consumismo, la pubblicità e l’immagine fine a se stessa? In che modo questo cambiamento viene percepito nel vostro lavoro?
Nessuna immagine è fine a se stessa, tranne che nell’arte. Se per immagine s’intende lo sviluppare una sensibilità per quello che appariamo agli altri in base a ciò che gli altri possono vedere (macchine, vestiti, scelte alimentari, viaggi… ), stiamo parlando dell’anima del conformismo, di cui in dosi minori e maggiori siamo tutti affetti. La pubblicità semplicemente fa leva sul conformismo. I consumi un tempo (prima del nuovo millennio) si orientavano secondo una volontà di crescita condivisa sia dagli stati e che dai consumatori. Avere di più, togliersi più sfizi possibili, accumulare. Già da tempo siamo entrati in una fase che è stata definita post-crescita. Grazie all’accessibilità delle informazioni è nato un consumatore più consapevole e attento. Un consumatore che non ama lo sperpero ed è diventato sensibile a tematiche nuove: il rispetto per l’ambiente, l’impatto energetico, la solidarietà nei confronti delle altre popolazioni, l’attenzione a beni non più identitari ma relazionali. In poche parole si è scoperto che potendo consumere di meno, era preferibile consumare meglio. Il consumatore di oggi è attento allo stile di vita: quindi i prodotti che sceglie devono corrispondere a una maggiore consapevolezza etica. Questa spinta responsabile è stata data ai consumi dai consumatori e non dalle strategie di marketing. La pubblicità (con le dovute differenze s’intende) è oggi attenta a trasmettere uno spirito di marca che si allinei a questo nuovo stile dei consumi.
In un’immagine pubblicitaria colpisce di più il testimonial, la frase o la foto?
La comunicazione pubblicitaria funziona quando c’è una perfetta sinergia tra immagine e parole. Quando il ragionamento che le unisce è cioè al contempo evidente e originale. Pensate al logo della Nike: il famoso baffo chiamato Swoosh e disegnato da Carolyn Davidson nel 1971. Cosa vi suggerisce quel segno? È uno slancio in avanti, è un salto verso l’alto. E infatti fino a pochi anni fa il pay off (la frase) che l’accompagnava era: Just do it (che potremmo tradurre come Vai!; Fallo!…). L’unione tra parole e segno è immediata, facile, ma anche originale. Efficace per una marca sportiva e scattante. E infatti non c’è nulla di casuale: lo Swoosh è nato da una stilizzazione delle ali della Nike di Samotracia, la dea alata della vittoria esposta al Louvre.