L’INTERVISTA.
Lo scrittore Gianrico Carofiglio, autore de Il silenzio dell’onda (Rizzoli, 2011) risponde alle domande degli studenti del Liceo scientifico Spallanzani di Tivoli.
Quanto la sottile analisi della vita della gente è stata influenzata da esperienze passate o conoscenze derivate dal suo mestiere?
Non c’è dubbio che alcune delle doti richieste a un bravo investigatore siano le stesse necessarie per scrivere buone storie e raccontare personaggi credibili. Spirito di osservazione, capacità di immedesimarsi, continua vigilanza per evitare i rischi del moralismo.
Nel suo ultimo romanzo Il silenzio dell’onda, possiamo paragonare la scoperta delle bellezze di Roma da parte di Roberto a quella di una nuova vita, possibile grazie alla relazione con Emma e al rapporto con Giacomo?
Direi di sì. Tutto il romanzo è, in fondo, il racconto di un viaggio di scoperta, reale e metaforico a un tempo.
La citazione alla famosa “scommessa su Dio” di Pascal ci ha portato a domandarci: qual è il suo rapporto con la fede?
Quello dello psichiatra nel romanzo.
In questo romanzo l’evento chiave del finale porta alla luce la terribile tematica della prostituzione minorile persino negli ambienti della società benestante. In particolare, l’occhio ci è caduto sulle parole con cui descrive la posizione di pena, mista a tenerezza, di Roberto nel momento in cui irrompe nella stanza dove si trovano gli aguzzini di Ginevra. Possiamo parlare di una volontà di portare alla luce un problema della nuova generazione, oppure di una semplice scelta nel susseguirsi della scrittura del libro?
Le due cose non si escludono anche devo precisare che quando scrivo una storia – racconto o romanzo che sia – cerco di non pormi intenti di denuncia. Non mi piace l’idea del romanzo che si trasforma in invettiva o che sostiene una tesi ideologica o un punto di vista politico. Le scelte che faccio sono narrative. Naturalmente poi, scrivendo, l’opinione dell’autore può (e in qualche caso: deve) venir fuori, ma questo è una conseguenza e non una premessa della narrazione.
Le vicende che riguardano Giacomo sono state espresse in prima persona con la pagina di diario per esprimere con maggiore realismo il pensiero di un bambino?
Penso di sì, ma non ho fatto questo ragionamento quando ho cominciato a scrivere. Mi è venuto naturale che la storia di Giacomo – quella veramente autobiografica, nel romanzo – fosse in prima persona.
Dato il realismo e l’espressività con cui ha descritto il momento in cui, al termine del romanzo, Roberto ha avuto la forza di salire nuovamente sulla tavola da surf, ci chiedevamo se lei abbia mai provato un’emozione simile e se questa stessa emozione l’abbia ispirata a scrivere il libro.
Ne ho avute parecchie, nello sport e in altri ambiti. Per questo motivo – e anche per altri, a dire il vero – mi considero una persona fortunata.
Il percorso di “ritorno alla vita” che Roberto compie investe tutta la durata del libro. Nella sua vita lei ha mai avuto un’esperienza del genere? Se no, ha avuto modo di osservarla da vicino?
Ho avuto un’esperienza simile ma ho anche e soprattutto avuto occasione di osservarne altre da vicino. L’una e l’altra cosa mi hanno aiutato molto a raccontare questo genere di storia.
Nel terzo capitolo, Roberto esprime una sua opinione personale sulla legalizzazione della droga, che è, per il suo personaggio, l’unico metodo per combattere il traffico internazionale di stupefacenti. Condivide la teoria dell’agente antidroga di sua invenzione?
Naturalmente no, in quei termini radicali e provocatori. Trovo però che il problema esista e che lo si debba affrontare senza pregiudizi ideologici.
Le trecento pagine del suo libro sono imperlate di particolari: ci hanno colpito molto i riferimenti al mondo della seconda arte, da Louis Armstrong ai Dire Straits, fino agli U2. Lei, come Roberto, è un uomo senza grandi attitudini musicali oppure un avido esploratore di negozi come il “King Lizard”?
L’uno e l’altro. Sfortunatamente non ho talento musicale, ma ascolto tanta musica e mi piace scoprire nuovi autori o vecchi pezzi dimenticati.
Una domanda di certo insolita: ha dovuto sopportare anche lei, come Roberto da Carella nel capitolo otto, una “cena-supplizio” a casa di un collega, di un amico, di un conoscente?
Una sola? (ride)