Intervista a Ilaria Rossetti a cura dell’istituto magistrale Varrone di Cassino

L’INTERVISTA. La scrittrice Ilaria Rossetti, autrice di Happy Italy (Perrone, 2011) risponde alle domande degli studenti dell’Istituto Magistrale Varrone di Cassino.

Perché fra i tanti fatti della vita sociale, politica ed economica del nostro paese  ha scelto una tematica particolare come quella contenuta nel romanzo?

Bancopoli ha mosso i passi dalla mia città natale, Lodi; Fiorani stesso è di Lodi. Io avevo sedici anni, all’epoca, e ricordo che, nel marasma generale, mi colpì il silenzio e l’omertà della mia città. Ho voluto quindi riportare a galla questa storia, che ad oggi non è ancora finita, e che trovo particolarmente emblematica della situazione attuale del Paese tutto.

Come sono nati nella sua mente i personaggi?

Tutti i miei personaggi vengono da posti, pensieri e ossessioni che mi appartengono. Ognuno di loro, da Virginia ad Alice, passando per Ettore, è nato da un impasto di esigenze narrative e suggestioni personali, ed è stato rifinito man mano che la scrittura procedeva, in modo che prendesse vita con forza e incisività.

A quale personaggio del romanzo si sente vicina  in modo particolare?

Ho inculcato in Alice il mio stesso risentimento e un po’ di sana ferocia. Lei è quasi violenta, io tendo a non esserlo: ma di certo, nonostante sia una donna anziana, ha più forza e combattività lei di Virginia. Perlomeno all’inizio. In questo ci somigliamo.

La figura finale del clown scaturisce da qualche riferimento concreto?

Mi aveva colpito l’immagine che poi sarebbe diventata la copertina del romanzo: uno scatto che ritrae un’opera di Banksy, il clown di Ronald McDonald, in procinto di suicidarsi, accanto una bottiglia d’alcool e lacrime e sangue alla bocca. Una folgorazione tragica, che dice tutto.

Lei avrebbe sparato a Fiorani?

Se mi fossi trovata nelle condizioni dei miei personaggi? Forse sì. Io, Ilaria Rossetti, probabilmente no. Ma talvolta l’ingiustizia subita è tale che arriviamo a comprendere gesti estremi che, per quanto probabilmente inutili, leniscono almeno la furia dell’impotenza.

Qual è il posto in cui le piace scrivere?

Dappertutto. Non sono una feticista della scrivania dello scrittore o della finestra davanti al mare. Scrivo quando è il momento. E questo può accadere in casa, su un treno, a una lezione all’università, a letto.

Cosa consiglia agli aspiranti scrittori?

Di leggere. Leggere, leggere, leggere.

Perché ha scelto Moneglia come luogo di ambientazione della vicenda?

Moneglia è il mio locus amoenus, il posto dove ho passato gran parte delle estati della mia vita e anche parecchie porzioni d’inverno. È uno sputo di case tra mare e montagne, un posto bellissimo e che amo molto. Suo malgrado, è diventato quasi inconsciamente il protagonista di questo romanzo. Ho dovuto togliergli tutta la sua bellezza e renderlo un luogo di sconforto e giardini e pistole.

Lei crede che nella realtà, così come accade nel libro, il malcostume trionferà sempre?

Anche ora non trionfa sempre, e questo è bene tenerlo presente. Ma trionfa comunque troppo. Voglio conservare un po’ di ottimismo, anche se credo che in Italia la situazione sia davvero tragica. Di certo, non c’indigniamo abbastanza.

Inventando il titolo del romanzo di Ettore, Noi siamo tutti Berlusconi, ha voluto comunicare un messaggio particolare ai suoi lettori?

Ettore e la sua biografia Noi tutti siamo Berlusconi rappresentano molto di quello che siamo diventati: persone cui è stata lentamente tolta ogni capacità critica e di riflessione, affascinati dal denaro e dai risultati facili, dalle scorciatoie, dagli schermi televisivi, fan di soggetti loschi ma di successo, posto che il successo, oggi, spesso si misura con la capacità di fare il proprio interesse sempre e comunque, calpestando chiunque capiti sul nostro cammino. Siamo chi abbiamo scelto.

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