L’INTERVISTA.
L’autrice de La vita accanto (Einaudi, 2011) risponde alle domande degli studenti del Liceo scientifico Labriola, Roma.
Lei ha scelto di trattare nel suo libro la storia di una ragazza che ha dovuto affrontare una grossa difficoltà per affermarsi nella società. Questa sua decisione è scaturita da un evento in particolare?
È davvero un mistero come nasca la narrazione. Mistero nel senso direi quasi religioso del termine: qualcosa di cui si può parlare ma che sfugge a una definizione. Faccio un lavoro che è un privilegio, sono insegnante e la varietà del mondo mi arriva in classe portato dai ragazzi, meravigliosamente diversi, che filtrano poco perché non hanno ancora l’arte di dissimulare, come spesso capita negli adulti, e anche quando lo fanno, lo fanno con la speranza che in realtà noi adulti siamo capaci di leggere la verità della loro persona. Credo di avere intercettato emozioni nuove in questi anni, soprattutto un timore grande di essere inadeguati, di appartenere, per una ragione qualsiasi, alla schiera crescente dei possibili esclusi da una normalità sempre più stretta. Esclusi per ragioni etniche, sociali, culturali, estetiche, addirittura di… gusti. Quanto è difficile oggi affermare la propria originalità! Questa paura mi ha attraversata e l’ho riconosciuta: chi di noi non ha avuto qualche volta il timore di non essere amato, accolto? Così, per quel che posso dire, è nata Rebecca.
Rebecca è descritta fin da subito come una bambina a cui sembra preclusa ogni interazione sociale e il libro introduce una visione negativa della diversità soprattutto nelle scene chiuse della propria casa. Non appena però la scena si sposta nella scuola Rebecca stringe un’amicizia duratura che smentisce tutto. Questo rappresenta per lei un’idea della necessità di dover affrontare la realtà e superare se stessi per riuscire ad affrontare le “prove” che la vita ci pone?
Rebecca è una bambina attenta e seria ma il suo primo passo verso la normalità non è il risultato di un suo sforzo. Nel suo primo giorno di scuola viene di colpo riconosciuta da due persone: la maestra Albertina, che la chiama per nome e non smette più, e Lucilla, che non la vede brutta, la vede e basta. E questo davvero io credo: che sia sì sempre necessario coltivare l’arte di resistere e non abbattersi se qualcosa ci tocca negativamente e ferisce, ma che sia sbagliato e crudele enfatizzare questo aspetto della “prova”. Come se essere vinti, non riuscire a resistere fosse una colpa. Non tutti hanno un talento che sia così importante da riscattare completamente una vita, ma tutti possono ricevere lo sguardo che li accoglie se… il mondo intorno lo dà questo sguardo. Oggi si tende a considerare positiva l’ostentazione del potere, della forza, della ricchezza, dell’arroganza. Nell’aria che si respira c’è una crudeltà che non è oggetto di riprovazione e questo non aiuta ad accettarsi. Non credo alla mistica dell’escluso che lotta solitario e disperato contro il mondo. E chi non ha la forza cosa fa? E chi non ha il carattere e la cultura e gli strumenti necessari? Il mondo deve cambiare, come dire, insieme, un po’ alla volta. Così i rapporti salvano, ci salviamo gli uni gli altri. Si sta o cade insieme.
Un altro elemento che allontana gli elementi negativi dalla vita dei personaggi sembrano essere le proprie passioni come ad esempio la musica per Rebecca o la scrittura per la madre. Questa particolare impostazione è stata fatta per rendere consapevoli i lettori delle nostre potenzialità e per incitarli a coltivare tali passioni?
La musica dà a Rebecca la sua prima voce. La musica è l’irrompere della sua vita nella casa dei silenzi, dove pochi le parlano e nessuno la ascolta davvero. Poi non sarà la musica a salvare la sua vita. Saranno i rapporti, le relazioni con persone che la riconoscono. Però la musica le permette di dimenticarsi e bisogna dimenticarsi un po’ per vivere. Un io sempre presente è tanto tanto… ingombrante, ci impedisce di vivere e di vedere gli altri. Anche la scrittura non “salva” la madre in senso stretto, nel romanzo. Però salva la sua voce, la voce del suo amore per Rebecca, che può conoscerlo e farlo proprio. Per cui sì: le passioni salvano, ma non da sole. Insieme al mondo delle nostre relazioni buone.
La musica in particolar modo è stata a mio parere molto privilegiata nel romanzo. Che ruolo gioca secondo lei la musica nella vita reale?
Nell’antichità la musica era una cosa rara, legata al sacro oppure alla regalità. Pochi avevano accesso alla musica, a cui veniva riconosciuto un valore quasi divino: nella Bibbia Davide addolcisce le malinconie di Saul con la sua musica, ad esempio. Oggi la musica è spesso mescolata al rumore: del traffico, delle chiacchiere del bar, delle casse del supermercato, e questa non è una cosa buona. Ma la musica parla alle nostre emozioni in modo immediato, e questo lo sanno bene i ragazzi che ascoltano la musica per gran parte del giorno, cercando queste emozioni. Sarebbe bello saper coltivare l’aspetto “prezioso” della musica.
Questo è il suo romanzo d’esordio ed è stato accolto positivamente dalla maggioranza dei lettori. Quale crede sia stata la chiave di volta che ha catturato il pubblico?
Non so se si tratta della maggioranza però ho la fortuna di ricevere molte belle lettere di persone che mi “restituiscono” il romanzo attraverso le loro parole. In generale si sono riconosciuti nei sentimenti dei personaggi. Molti nel senso di esclusione di Rebecca, qualcuno mi ha scritto di aver letto con sguardo diverso la propria esperienza con una madre colpita dalla depressione. Moltissimi scrivono di aver trovato nel libro un amore per la vita non al di là dei dolori che possono colpirci, ma proprio anche nel vivere la condizione che ci tocca. Poi c’è un piccolo fan club di Lucilla!
Quale finalità contenutistica vuole rappresentare l’enfatizzazione del rapporto, ai limiti dell’incesto, tra Erminia e il padre di Rebecca?
La potenza di un amore che ci arriva addosso e impegna tutto il nostro essere. Al quale si può resistere, si deve, perché l’amore se è vero rispetta sempre, non fa male all’altro. Ma è un amore che si impone, che non possiamo ignorare, in ogni minuto della nostra vita. Si muove costantemente sul confine, zia Erminia. Un po’ gioca, come dice Maddalena, un po’ resiste. Ad esempio è lei che riconosce il talento di Rebecca. Ma è prigioniera di quel che sente, non è libera.
Lei crede che sia importante che alla fine del romanzo ci sia il ritorno di Lucilla che è stata, in definitiva, la prima persona con cui Rebecca ha stretto un rapporto?
Assolutamente sì. Si ricostituisce una famiglia, una famiglia di affetti, ma una famiglia. E la casa ritorna a vivere.
Cosa rappresenta per lei la zia Erminia nell’ambiente familiare?
Erminia rappresenta un tratto della vita, con tutte le sue ambiguità. Erminia è viva, sente potentissimo l’amore per il fratello, non si sa bene quanto sia consapevole di questo, ma ama e soffre. Non si sceglie di amare, come non si sceglie di odiare. La scelta, e bisogna dire e credere che questa scelta è nelle nostre mani, riguarda le azioni che noi compiamo nella condizione di amore (o di odio) in cui ci troviamo. E in questo Erminia oscilla: da un lato il suo comportamento asseconda più o meno consapevolmente l’affetto geloso per il fratello, ad esempio non vuole una tata per Rebecca, si appropria della casa quando la cognata ne è quasi esclusa a causa della depressione, un po’ usa Rebecca per rimanere vicino al fratello, dall’altro compie azioni assolutamente positive e determinanti per la vita di Rebecca: ne riconosce il talento musicale, la fa uscire, non la abbandona il primo giorno di scuola, la vorrebbe mandare all’asilo e al conservatorio. La morte della mamma di Rebecca avrebbe potuto essere determinante e far sbilanciare la relazione fra Erminia e il fratello, invece non è così perché il papà di Rebecca è congelato nella sua impotenza ed Erminia sparisce.
La figura del padre di Rebecca risulta sempre estranea alle vicende, sempre lontano, sembra quasi non appartenere all’ambiente familiare. Questa è stata una scelta profondamente ricercata? Per quale motivo?
Il padre di Rebecca ha tutto ciò che potrebbe permettergli di essere una figura positiva: è bello, è colto, viene da una famiglia importante, è ricco, fa un bel lavoro, ha una bellissima moglie ed è innamorato. Ma non sa vivere. Non sa riconoscere la gravità del male che ha colpito la moglie, non reagisce all’invasione della sorella Erminia, non sa neppure difendere Rebecca, non la accompagna il primo giorno di scuola, non lotta al suo fianco quando subisce l’offesa. Questo capita. Capita di non essere capaci di fare il bene, o anche solo ciò a cui ci chiama la nostra responsabilità, anche se si è nelle condizioni di poterlo fare. Si ferisce senza volerlo davvero fare, con le nostre omissioni più che con le nostre azioni. E’ un personaggio tragico: sa cos’è la vita, la coltiva nelle donne che aspettano un bambino, di cui condivide l’intimità, le attese, le paure e la felicità. E infatti è lui che nel romanzo pronuncia, rivolto alla moglie, un vero inno alla vita: “La vita non è un oggetto prezioso da custodire nel corso degli anni. Spesso ci arriva tra le mani già sbrecciata e non sempre ci vengono forniti i pezzi con cui ripararla. Qualche volta bisogna tenersela rotta. Qualche volta invece si può costruire insieme quello che manca. Ma la vita sta davanti, dietro, sopra e dentro di noi. C’è anche se ti scansi e chiudi gli occhi e stringi i pugni. Non sei sola. Ricomincia con noi. Noi ci siamo”. Eppure non sa vivere e alla fine lo dice: “Io rovino tutto quello che tocco”. Perché non prendersi cura è rovinare, è inchiodare l’altro in un’attesa che non viene riconosciuta. Alla fine anche il padre sparisce, o meglio, resta sullo sfondo. Si può interpretare in modo diverso questo sparire: l’ultima espressione dell’inettitudine? Oppure un doloroso atto d’amore: liberare Rebecca dall’attesa di gesti che non sa compiere, consegnarla a chi la ama, a Maddalena e alla signora De Lellis. Consegnarla a se stessa, perché possa crescere.
Crede che sia veramente possibile che l’aspetto della bambina o, generalizzando, qualsiasi carattere considerato negativo, possa avere un ruolo così devastante nella natura dei genitori che, nel romanzo, sono incapaci di trasmettere affetto alla propria figlia?
L’amore per i figli è meravigliosamente potente e sa accogliere e stare accanto alle situazioni più difficili. Se questo accade e ci si sente amati quale che sia la nostra intelligenza, il nostro aspetto, anche il nostro sentire, allora siamo salvi, possiamo affrontare la vita con la sicurezza del nostro valore, le critiche ci fanno male ma non ci distruggono, le difficoltà mettono in movimento le nostre energie migliori. Ma non è sempre così. I genitori sono persone con una storia, che può essere una storia che non ha regalato loro la libertà dalle proprie attese, la capacità di considerare i figli persone che valgono anche se sono diversi da come li hanno immaginati. E la loro delusione può emergere direttamente: “Avrei voluto che suonasse il pianoforte”, “E pensare che io ero così bravo in matematica”, “Ha voluto lasciare la danza” e così via. Oppure indirettamente, nelle dichiarazioni di impotenza: “Non so cosa fare con lui”, “Non la capisco”. E’ devastante per un figlio sentire di deludere le attese dei genitori, non sentirsi accolto comunque, per quel che si è. Anche perché il bambino pensa sempre che sia colpa sua. Da grandi si impara che non è così, ma il bambino pensa al mondo in termini di onnipotenza, tutto accade come conseguenza delle proprie azioni o del proprio esistere. Rebecca vive questo. Poi impara che la realtà è diversa, che non è stata lei, che è la storia della famiglia ad aver pesato. E capisce e non prova rancore: “Mio padre è bellissimo, ma non sa affrontare il mondo, come me. Vorrebbe ma non può. Per questo lo capisco”. Questo è diventare grandi: capire e non giudicare, accettare che qui sulla terra il bene a il male sono mescolati. Sospendere il giudizio. Perché il giudizio rischia di mettere in croce gli uomini buoni insieme ai cattivi.