IL LIBRO.
Quel che non siamo è quel che non sappiamo: è questo il messaggio del poema epico di H. Janeczek, che, figlia di una bugia, attraverso le storie di vari personaggi racconta il suo viaggio interiore e la lunga ricerca di sé. Tormentata dalla voglia di conoscere ciò che realmente c’è stato nel suo passato e ciò che davvero la rappresenta, più volte confonde le idee del lettore, lasciandogli il gusto di camminare sulla linea sottile che divide menzogna e verità. I protagonisti sono le tappe di un unico viaggio senza via, fino ad arrivare a sé stessa. Non farmi domande, non ti dirò bugie. È un romanzo “mondo” con tutti i grandi temi dell’esistenza: il ricordo, l’identità, il diritto-dovere alla verità ed alla menzogna, la forza sconosciuta degli ultimi. Vi regna un doloroso amore per la vita, che insegna che quel che perdi non ti perdona, che i ricordi cambiano per vivere e vivono per cambiare, che la deriva può salvare e che c’è una forza anche nel falso.La vita, come i peccati, nasce dalle opere e dalle omissioni: le parole non dette si imprimono meglio di tante altre. Tutto ha come origine la guerra, in particolare quella combattuta a Montecassino, in cui hanno lottato anche gli “ultimi”, dimenticati nel vortice del conflitto, e persino un battaglione di maori. C’è Rapata, un giovane neozelandese che va alla ricerca della completa verità mai raccontata da un nonno adorato, soldato a Montecassino, che cerca di proteggerlo dalla dura realtà dei fatti, lasciandogli in eredità un urlo del silenzio al quale egli tenta di dare voce, tornando nei posti in cui il nonno aveva combattuto. Il cammino continua, i personaggi cambiano, ma il fine di tutti è riscoprire le proprie origini per far luce sul presente. Poi c’è la piccola grande Irka, figlia di un lager, che, senza mai piangersi addosso, cresce stretta ad un violino ed aggrappata ad una speranza che spinge oltre. La storia è lunga, complessa, ricca di desolazione e senza una vera conclusione, come ogni ricerca della verità; e poi quelle rondini con le ali tarpate che non volano più… È un romanzo mnemagogico, che ti fa venire voglia di ricordare e visitare il doppiofondo poco frequentato della tua coscienza e delle tue radici. I ricordi sono zavorra che pesa, dei quali, però, non ci si può liberare; se li lasci cadere, hai l’impressione di salire in alto, ma non è così e pian piano il passato comincia a reclamare la dignità dell’annuncio. È la vita che ti presenta il conto. Sempre. Come a Schliemann quel primo pezzo di mura sulla collina di Troia, così alla voce narrante riappaiono tracce di vita perse per strada. Il senso di tutto è in quello spazio di intercapedine, in quel dubbio, nell’attesa senza sapere cosa fare o cosa si è, in quel passo che non si compie mai completamente, nel saper ascoltare il mistero, nel varco intravisto, nell’indaco prima dell’alba. Il ritmo è sostenuto, forse troppo. L’equilibrio tra le varie tipologie delle sequenze è sbilanciato verso quelle epico-narrative. La lingua lascia parlare i fatti: è fredda e dura, con pochi aggettivi che, di solito, servono a dare identità, a marcare un territorio altrimenti di nessuno e troppo neutro; qualche congiuntivo è saltato. La plastica della sintassi assume un carattere ondivago, anche per le continue analessi. È un libro che va letto in penombra, con la mezza luce, quella dell’osteria manzoniana, dove la verità è sempre a metà e nulla è certo: la vita è fatta di sfumature che, talvolta, è meglio non cogliere veramente. (Helena Janeczek, Le rondini di Montecassino, Guanda, Parma 2010, pp. 362)
LA CITAZIONE.
“Non si può immaginare nulla di vero senza trovare un appiglio in ciò che si ha dentro”.
S(HORT) M(EMO OF THE) S(TORY).
Storia di memoria, di sangui e radici troppo profonde. L’essenza è nell’assenza. Verità che racconta una bugia che salva e uccide: è la + bella cosa brutta.
IL PERSONAGGIO.
Testardo, aoristico, capace di partire e perdersi per ritrovarsi altrove e cercare una verità dolorosa, oltre il muro di una provvida menzogna. Moderno demiurgo, fa rivivere un nonno adorato, che lo aveva nutrito a pane e racconti di guerra, e fa esistere sé stesso. È l’albero che cerca la sua radice, il cerchio che si chiude, il presente che spiega il passato. È l’immortalità di chi si ama, la ragione di una vita dedicata all’arte del ricordo che rende eterni.
a cura del Liceo Classico Alessandro Lombardi, Airola (BN)