Intervista a Giancarlo De Cataldo a cura del liceo scientifico Nomentano di Roma

L’INTERVISTA.

L’autore de I traditori (Einaudi, 2010) risponde alle domande degli studenti del Liceo scientifico Nomentano di Roma.

Nel suo ultimo romanzo I traditori sono presenti tanti diversi dialetti quali il Siciliano, il Calabrese, il Sardo, il Veneziano, il Romano e altri… La scelta di usarne talmente tanti a cosa è dovuta? E soprattutto, non corre il rischio che i lettori non comprendano tutti questi linguaggi?

Beh, io non sottovaluterei troppo i lettori. D’altronde, qualche piccolo sforzo, in nome della letteratura, bisogna pur farlo… Io stesso ho chiesto consulenza ad amici di “madrelingua” dialettale, per risciacquare i panni nei più vari fiumi e mari d’Italia. L’uso del dialetto è dovuto al rispetto della Storia: a quel tempo, anche l’attivismo patriottardo complottava per gruppi omologhi linguisticamente. Per esempio, Garibaldi e Nino Bixio, che erano liguri, parlavano fra loro in dialetto ligure, e i meridionali si esprimevano in una serie di dialetti spesso incomprensibili ai loro fratelli del Nord. Per questo, la creazione di una lingua comune – il cui atto fondante è nei Promessi Sposi- rivestiva un’importanza strategica nel discorso unitario.

Nella narrazione si ha l’impressione  che prevalgano aspetti e comportamenti torbidi, violenti, infidi: non a caso il titolo è I Traditori. Perché ha pensato di sacrificare i timbri più idealistici e patriottici?

Non sono d’accordo. Il mio racconto ha la pretesa di riconsiderare tanto il risorgimento patriottico che quello oscuro, militante e militare. Una grande lotta di liberazione nazionale, come fu il Risorgimento, non può prescindere dal concorso di idealisti e opportunisti, eroi e rinnegati, spie e luminosi combattenti. E’ un’avventura fatta di luci e di ombre. Gli storici ne sono perfettamente consapevoli, i narratori hanno il dovere di divulgare questa consapevolezza. Personalmente, credo che alla nostra scarsa attenzione per il Risorgimento abbia pesantemente contribuito proprio questa mancanza di chiarezza nei riguardi degli aspetti oscuri. I quali aspetti oscuri, se calati nel contesto storico del tempo, si rivelano produttivi, a loro volta, di effetti sorprendentemente luminosi.

L’immagine della ‘Ghirlandata’ è il volto della Striga?

Sì. Vi esorto a visitare la mostra in corso in questi giorni a Roma, alla Galleria Nazionale di Arte Moderna, sui pre-raffaelliti. Perché ci troverete molte declinazioni del volto della Striga, e potrete percepire il respiro potente di un tempo in cui bellezza, rivoluzione, ideali erano un insieme inestricabile.

Nella redazione del suo romanzo, quanto ha attinto alla documentazione storica? Quanto invece alla sua interpretazione personale degli eventi? Qual è il messaggio che vuole lanciare?

La base narrativa è immaginaria, e gravita intorno a personaggi di finzione ai quali è affidato il compito di condurci nei meandri della Storia vera di quegli anni. Lo scrittore aggiunge ai nudi fatti la forza della metafora, e in questo si distingue dallo storico e dal cronista. Dal mio canto, però, devo dire, con tutta onestà, che ogni qual volta i raccordi emotivi e quelli storici entravano in contrasto, davo la preferenza ai primi. Non mi interessava una storia del Risorgimento, ma la mia interpretazione di quei giorni eroici e oscuri in egual misura. Il messaggio, per me, era chiaro: l’Italia andava fatta comunque. E’ stata fatta male. I migliori, come Mazzini, ne sono usciti soccombenti. Ora si tratta di riprendere il discorso da dove l’abbiamo interrotto, e di rifarla, questa Italia. Rifarla meglio.

Perché descrive Mazzini come un personaggio disposto spesso ad usare mezzi poco leciti quando la storia ce l’ha consegnato come un uomo di nobile pensiero?

Mazzini fu entrambe le cose. Patriota idealista, nobile legislatore della Repubblica Romana, profetico nel battersi per lo Stato laico e diritti delle donne e di ogni minoranza, ma anche agitatore professionale, mandante del tentato assassinio di Carlo Alberto e di Napoleone III. Non praticò mai il terrorismo, inteso come effettuazione di attentati contro una moltitudine indiscriminata, ma teorizzò il regicidio, come arma per imporre la democrazia contro i tiranni che soffocavano i popoli. Nel contempo, cospirava e fondava scuole, raccoglieva armi per l’insurrezione e si dannava l’anima per dare agli italiani di là da venire un’anima comune. Credeva che all’Italia fosse rimessa la missione di fare da guida ai popoli in cerca di libertà. Si richiamava a Dante, all’ideale di bellezza e compostezza della tradizione, e cercava una mediazione, una fusione fra questi ideali e il pragmatismo operativo del politico. Un personaggio contraddittorio e affascinante quant’altri mai.

L’Italia del 1861 quanto è diversa dal Paese che conosciamo oggi? Quanto siamo diversi noi dagli italiani che lottarono per cacciare lo straniero? Quanto del presente riconosciamo in quel passato?

Esiste una forte continuità fra i pregi e i difetti degli italiani di ieri e di oggi. L’alleanza fra gli speculatori del Nord e i possidenti parassiti del Sud, che si saldò in nome dei comuni interessi, e che garantì lunga vita alle consorterie criminali al Sud e affaristiche al Nord, costituì allora un perverso intreccio che ancora oggi dispiega i suoi effetti nefasti sulla vita nazionale. Nello stesso tempo, siamo e restiamo un popolo capace di produrre grandi ingegni: spesso li trattiamo ingenerosamente, ma la loro stessa esistenza dimostra la forza e la vitalità del genio italiano. Oggi viviamo, a mio modesto avviso, in un periodo buio. Ma come dovevano sentirsi i patrioti nel 1859, quando tutto sembrava perduto, dopo trent’anni di moti fallimentari e due guerre perse sul campo… continuarono a credere, a dispetto di tutto, che le cose potessero cambiare. E cambiarono., Nel giro di pochi mesi. La Storia è un motore potente, ma infido. La fede tenace- e il nostro Risorgimento lo dimostra- può fare miracoli.

Il 17 marzo 2011 si commemoreranno i 150 anni dell’Unità d’Italia, festa soggetta a continue discussioni e ripensamenti,provenienti dalla parte settentrionale del nostro Paese. Quanto realmente abbiamo raggiunto l’Unità dello Stato? Quanto effettivamente ci sentiamo italiani e ci identifichiamo sotto una sola bandiera?

L’Unità nacque zoppa per via del profondo, e mai sanato, divario fra Nord e Sud. Tuttavia, in 150 anni le etnie italiche si sono così profondamente mescolate che i vaneggiamenti sulla presunta purezza di alcune razze mi fanno sorridere. Le celebrazioni sono state ostacolate dalla presenza nell’area di governo di un partito politico che ha al primo punto del suo programma la secessione. Date le premesse, si è fatto anche troppo. Si è ricreato un interesse intorno all’Unità che sembrava morto e seppellito. Si sono riviste piazze invase dal Tricolore. Un film come “Benvenuti al Sud” ha sbancato al botteghino. Credo che il sentimento nazionale sia fortissimo e ben vivo, di là dalle apparenze. Come disse una volta Mazzini, in un momento nero per la rivoluzione nazionale, la nostra è guerra che si combatte da centinaia di anni, e voi volete arrendervi alla prima sconfitta? C’è ancora molto da fare per sentirsi italiani. Cominciare a rivendicarlo con orgoglio è il primo passo.

Il processo di unificazione dello Stato ha favorito il consolidamento della mafia? Cosa l’ha resa così forte e potente da non permettere la sua completa distruzione?

La mafia è potente perché fa accordi con lo Stato, o, meglio, con settori di esso. E perché al Sud nessuno Stato – tranne che per un breve periodo durante il Fascismo e nel periodo dei maxiprocessi, fra il 90 e il 93 – nessuno Stato è riuscito nell’impresa di sradicare il fascino culturale che il crimine organizzato esercita su tanti, troppi giovani disperati. La mafia si combatte con la repressione, ma – e a dirlo era persino il prefetto fascista Mori – soprattutto con la cultura, con il lavoro, con il rispetto delle leggi, ricostruendo il tessuto connettivo fra popolo e governo. La mafia perde quando non conviene essere mafiosi. La mafia perde quando davanti a un mafioso si ride e non ci si leva il cappello in segno di rispetto. Ma lo si potrà fare solo quando lo Stato sarà massicciamente alle spalle di ciascuno di noi. Altrimenti continueremo ad avere eroi come Falcone e Borsellino, e nient’altro.

La Striga è un personaggio molto particolare e ci ha colpito. Questa figura funge da “collante” tra i vari personaggi del libro, ma per le sue peculiarità sembra estranea alla struttura . Non è in grado di relazionarsi con gli altri parlando, in quanto muta, ma è in grado di cogliere l’armonia che pervade l’ordine del cosmo attraverso i numeri. Qual è il significato nascosto e per questo difficilmente percepibile associato alla Striga? Perché mette in correlazione tutti i personaggi del libro?

La Striga è una metafora dell’Italia. Del suo genio, della sua bellezza. Genio e bellezza che troppo spesso restano muti di fronte all’avidità, alla grettezza, alla meschinità imperanti. Ma dite bene, quando dite che c’è un significato nascosto. Su un blog ho letto che la Striga è un personaggio steampunk, perché collabora con Babbage, icona cyberpunk daigli anni Ottanta. Il blogger mi dà del “vecchio volpone”. Mi piace. Dietro, e dentro, la Striga, c’è un mistero. Credo sia giusto che resti tale.

Quanto il ritratto della Striga sulla copertina del libro ,che è opera di uno dei personaggi Dante Gabriel Rossetti, ne ha determinato l’immagine?

Credo di aver già risposto. In ogni modo, nel disegno di questa ragazza rientra anche il gusto personale. Io amo da sempre la Londra di Dickens, i pittori sensuali che la popolavano, l’erotismo che vi si respirava. Scoprire (e vera scoperta è stata, perché se ne sapeva poco, anche se era sotto gli occhi di tutti) scoprire quel legame profondo che correva fra ansia libertaria e libertinismo mi ha eccitato. E poi, la Striga me la sono sognata. Davvero!

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